Battaglie In Sintesi
Aprile-Agosto 1849
Quattordicenne, fu mandato a Napoli, dove frequentò la scuola militare, e, uscitone nel 1799, s'iscrisse nella milizia della Repubblica Napoletana, combattendo agli ordini del generale Matera contro le orde del cardinale Ruffo, quindi al Ponte della Maddalena (13 giugno 1799), dove, dopo aver dato prove d'indomito coraggio, fu ferito e fatto prigioniero. Fu presente agli orrori della feroce reazione, poi, perché minorenne, liberato e cacciato in esilio. Da Marsiglia, dove sbarcò, si avviò a Digione e si arruolò nella legione italiana, la quale si unì all'esercito del Primo console, che per il San Bernardo si accingeva alla riconquista d'Italia, e, semplice soldato, combatté a Marengo (14 giugno 1800). Andato in Toscana, partecipò alla lotta contro i ribelli a Siena e ad Arezzo, quindi si portò a Milano e di là a Napoli, dove congiurò contro i Borboni, recandosi in Calabria, al fine di sollevarla. Arrestato e rinchiuso nell'orrido carcere di Maretimo, vi rimase tre ami, fino a quando (1806), impadronitisi i Francesi del regno di Napoli, fu liberato, dal re Giuseppe nominato maggiore nel nuovo esercito e inviato in Calabria agli ordini del Masséna per sedarvi l'insurrezione. Succeduto sul trono di Napoli al fratello di Napoleone I il Murat, il Pepe. fu mandato a combattere in Spagna al comando d'un reggimento (9 novembre 1811) col grado di colonnello; e tornato a Napoli, fu promosso maresciallo di campo. Fece la campagna d'Italia col Murat contro il viceré d'Italia, segnalandosi al ponte sull'Enza e alla Secchia e in quella contro gli Austriaci, quando il Murat innalzò il vessillo dell'indipendenza italiana, conclusa tragicamente a Tolentino (16 aprile 1815). Tornati i Borboni sul trono di Napoli, il Pepe ottenne il comando della terza divisione militare (6 ottobre 1818). Due anni dopo (2 luglio), a Nola gli ufficiali Morelli e Silvati iniziarono la rivoluzione al grido di "viva la Costituzione", e il Pepe fu mandato a sedarla, ma alla notizia che il re prometteva una libera costituzione, entrò trionfalmente in Napoli alla testa delle schiere costituzionali e fu creato comandante supremo dell'esercito; ma si trovò in contrasto col Carascosa, ministro della Guerra. Sopraggiunta l'invasione austriaca (8 gennaio 1821), il Pepe comandò una parte dell'esercito napoletano che il vicario del regno inviò contro gli Austriaci, ma la rotta di Rieti sbandì ogni velleità da parte dei liberali e il Pepe, costretto all'esilio (21 marzo), prese imbarco su una nave spagnola. Sceso in Inghilterra, iniziò colà il lungo esilio durato fino al 1848. A Londra ebbe onorevoli accoglienze - particolarmente ambita fu dal Pepe l'amicizia del Foscolo - e diede alla luce (Parigi 1822) una narrazione degli avvenimenti napoletani del 1820-21 (tradotta in francese, in spagnolo e in inglese), per cui ebbe a sostenere un duello con il Carascosa. Nel 1830 andò a Parigi sperando salute all'Italia dalla rivoluzione di luglio; e quando ebbe notizia di quella dell'Italia centrale del febbraio 1831, corse a Marsiglia, poi a Lione, dove apprese il fallimento di quel moto. Tornato a Parigi, si dedicò a studi storici, e coltivò estese conoscenze con gli esuli del '31 e con gli uomini politici francesi più in vista. Nel 1833 pubblicò una Memoria sui mezzi che menano all'italiana indipendenza, con prefazione di A. Carrel; nel 1836 l'Italia militare, con prefazione del Thibaudeau; nel 1839 l'Italia politica, e nel 1846, in due volumi, le Memorie intorno alla sua vita e ai recenti casi d'Italia. Nel marzo del 1848 le vicende italiane lo decisero a tornare in patria. Il 29 di quel mese entrò in Napoli, dove fu accolto in trionfo e dal re Ferdinando II riconfermato nel grado di generale ed ebbe affidato il comando dell'esercito spedito nel Veneto contro gli Austriaci. Partì il 3 maggio; e sbarcato ad Ancona cinque giorni dopo, vi assunse il comando delle truppe che man mano, con studiata lentezza, erano giunte o giungevano dal regno. Andato a Bologna, ebbe notizia dei tragici fatti del 15 maggio a Napoli e del richiamo delle truppe napoletane. Indotto dalle esortazioni del popolo bolognese, il 22 maggio il Pepe scrisse a Ferdinando II che la sua coscienza di soldato non gli permetteva di ubbidirgli; e mentre la maggior parte dell'esercito prendeva la via del ritorno, egli, alla testa di quanti avevano approvato la sua decisione, varcò il Po a Ferrara (10 giugno), e di là per Rovigo, accettato l'invito del Manin, entrò il 13 giugno in Venezia, dove il governo di quella repubblica lo nominò generale in capo dell'esercito (16 giugno). La sua azione, specialmente negli ultimi giorni della storica difesa, fu argomento di aspre critiche. Caduta la città (23 agosto 1849), il Pepe si avviò di nuovo in esilio. Giunto a Corfù (29 agosto), s'imbarcò per Genova (8 ottobre) e alla fine di novembre raggiunse Parigi. Colà attese a stendere le sue memorie sui Casi d'Italia negli anni 1847, '48, '49, date alla luce a Torino nel 1850, e subito dopo il colpo di stato del 2 dicembre partì per il Piemonte e a Torino trascorse gli ultimi suoi anni.
Feldmaresciallo austriaco, nato nel castello di Trebnice, in Boemia, il 5 novembre 1766, morto a Milano il 5 gennaio 1858. Entrato diciottenne nella carriera militare, fece le prime armi contro i Turchi, e nel 1793 fu nominato ufficiale d'ordinanza di J. P. Beaulieu, poi di S. v. Wurmser, con i quali fece le campagne d'Italia del 1796 e del 1797. Promosso colonnello, partecipò alla battaglia di Marengo, come aiutante di campo di M. v. Melas, quindi salì presto agli alti gradi militari, poiché nel 1808 era maggior generale e nel 1809 tenente feldmaresciallo, con l'incarico della riorganizzazione interna dell'esercito. Fece le campagne dal 1813 al 1815, in qualità di capo di Stato maggiore del principe K. Ph. Schwarzenberg, comandante in capo degli eserciti alleati, e dal 1816 al 1828 servì in Ungheria agli ordini del governatore, l'arciduca Ferdinando. Aveva deciso di ritirarsi dal servizio attivo, ottenendo, come generale di cavalleria, il comando della fortezza d'Olmütz (Olomouc), quando, scoppiata la rivoluzione dell'Italia centrale (febbraio 1831), fu destinato a sostituire il vecchio generale J. Ph. v. Frimont nel comando dell'esercito che l'Austria aveva concentrato in Lombardia. Promosse i lavori di fortificazione di Verona e attese al miglioramento dell'esercito, prevedendo che la rivoluzione del '31 e i susseguenti moti insurrezionali che agitavano l'Italia costituivano i prodromi di una guerra a breve scadenza. Nel 1836 fu promosso feldmaresciallo. Teneva il governo militare della Lombardia, quando scoppiò la rivoluzione delle Cinque Giornate milanesi, per cui il Radetzky fu costretto ad abbandonare la capitale lombarda e a rifugiarsi entro Verona, dopo di aver messo a ferro e a fuoco i paesi in cui gl'insorti gli contrastavano la ritirata. Dichiarata, da parte del Piemonte, la guerra all'Austria, il Radetzky rimase nel quadrilatero; e mentre l'esercito di Carlo Alberto assediava Peschiera, egli provvide a riorganizzare il suo esercito, per riprendere l'offensiva non appena gli fossero giunti i rinforzi da lui chiesti. Essi giunsero dalla parte del Veneto, dopo aver vinto a Cornuda e alle Castrette le truppe pontificie, e il 22 maggio operarono il congiungimento con le truppe del Radetzky Validamente accresciuto, l'esercito austriaco si concentrò allora a Mantova col proposito di tagliare la strada di Milano all'esercito piemontese, e dopo sanguinosa lotta a Curtatone e a Montanara (29 maggio) contro le truppe dei volontari toscani, si scontrò a Goito con l'esercito piemontese, che riportò una brillante vittoria, impedendo agli Austriaci il passaggio del Mincio. Se non che, il Radetzky, traendo profitto dell'inesplicabile inazione del nemico, piegò su Vicenza, che fu costretta a capitolare, e rinforzato dalle truppe di L. v. Welden, sconfisse a Sommacampagna l'ala destra dell'esercito piemontese comandata da E. de Sonnaz (22-23 luglio), e due giorni dopo batté l'esercito di Carlo Alberto a Custoza, lo costrinse a togliere il blocco a Mantova, quindi lo sconfisse a Volta, obbligandolo alla ritirata su Milano e poi a rivalicare il Ticino. Il Radetzky entrò in Milano il 6 agosto e tre giorni dopo concluse l'armistizio detto di Salasco, per cui l'esercito piemontese doveva evacuare da tutto il territorio lombardo. Ripresa la guerra il 16 marzo 1849, dopo otto mesi di armistizio, il Radetzky varcò il Ticino presso Pavia e il 23 marzo riportò una nuova vittoria a Venezia; e poiché negò una sospensione d'armi, Carlo Alberto decise di abdicare (24 marzo) in favore del figlio, che fu costretto ad accettare le dure condizioni dei preliminari di pace imposte dal Radetzky Nominato governatore generale del Lombardo-Veneto, il Radetzky amministrò il paese con eccessiva severità, sia nei riguardi degli esuli, sequestrando i beni ai più facoltosi, sia nel reprimere il moto insurrezionale del 6 febbraio 1853, ma specialmente per la crudeltà dimostrata nel perseguitare i patrioti milanesi e per la fredda ferocia durante i processi di Mantova. Fu collocato a riposo il 28 febbraio 1857. Scrisse di argomenti militari (Über den Zweck der Übungslager im Frieden, 1816; Gedanken über Festungen, 1827, ecc.).
Dopo la caduta di Vicenza in mani austriache, restavano dunque ancora in armi Venezia, protetta dalle sue lagune, e le due piccole fortezze di Palmanova e di Osoppo. Palmanova era rimasta abbandonata a sé già il 16 aprile e dall'11 maggio al 16 giugno era stata soggetta a continui bombardamenti. Difendevano la città elementi italiani del reggimento austriaco d'Este ed altri, ugualmente ex soldati austriaci, venuti a formare la legione Galateo; e poi 100 cannonieri piemontesi e la Guardia Civica. Il 14 giugno il bombardamento riprendeva, continuando il 15 e il 16. Il 21 il colonnello Kerpen, annunziata la caduta di Vicenza, di Padova e di Treviso, intimava la resa. Il generale Zucchi riunì un consiglio di guerra; al solito i pareri furono discordi: specialmente i crociati e i soldati del battaglione Galateo volevano continuare la resistenza. Alla fine, il 24 giugno, la piazza s'arrendeva: i soldati erano liberi di tornare alle loro case, gli ufficiali avrebbero conservato le armi, gli artiglieri piemontesi s'impegnavano a non combattere per un anno contro gli austriaci, mentre crociati Veneti e truppe regolari erano anche liberi di riparare a Venezia. Il vecchio generale Zucchi fu biasimato per tale resa, ritenuta prematura dagli elementi di sinistra. Ad onta di ciò, il governo provvisorio lombardo chiamava a Milano e quindi lo mandava a Brescia, proprio quando l'esercito piemontese stava per subire il doloroso rovescio di Custoza. Rimaneva Osoppo, difesa dal bolognese Zannini, il quale sempre sperava in una ripresa della rivoluzione in tutto il Friuli, ed era coadiuvato dal friulano Andervolt. Il presidio già di 450 uomini, molti dei quali già nell'esercito austriaco, ed altri volontari e guardie civiche, finì col ridursi a 350. Gli abitanti della zona si adoperarono perché il forte fosse rifornito di viveri e anche di vestiario; comunque, la guarnigione venne posta presto a razione e resistette tenacemente tra gli stenti; la popolazione del villaggio sottostante alla rocca non si decideva ad abbandonare le proprie dimore e uomini e donne aiutavano nei lavori. La fortezza, con un perimetro di 1800 metri, aveva 28 cannoni. Gli austriaci pensarono dapprima a un attacco di viva forza, poi si limitarono a un blocco sempre più serrato. Il 26 giugno, caduta anche Palmanova, era intimata la resa, ma invano. Alla fine di settembre, gli austriaci parvero decisi ad assaltare il forte con 2 battaglioni e truppe suppletive. Il 1° ottobre cominciò il bombardamento che si protrasse saltuariamente nei giorni successivi. Un colpo di mano, nella notte sul 7, contro il villaggio era sventato, ma il 9 ottobre il paese era conquistato, saccheggiato e incendiato, sebbene gli austriaci non potessero mantenervisi. Il giorno dopo lo Zannini era invitato a trattare. Riunito un consiglio di guerra, questi ritenne che la capitolazione potesse essere accettata. Alla fine, 13 ottobre, la capitolazione era sottoscritta: il presidio sarebbe uscito con gli onori delle armi; gli elementi cosiddetti di truppa estera sarebbero stati accompagnati al confine; gli ex militari austriaci potevano tornarsene alle loro case. I superstiti riparavano a Venezia e vi costituivano la legione friulana. La difesa di Osoppo costituiva una bella pagina di tenacia e d'abnegazione, anche se era mancata l'estrema difesa. Anche qui, però, la difesa del forte non s'era accompagnata a un'azione di bande contro le truppe assedianti; le forze combattenti parevano destinate a concentrarsi nelle città, per cadere quivi, dopo onorata resistenza, le une dopo le altre.
Più a lungo, come è ben noto, resisteva Venezia; anzi la regina delle lagune era l'ultima città italiana a cadere. Si era liberata quasi miracolosamente, il 22 marzo, quando l'arsenale era stato preso, grazie alla defezione di 4 o 500 uomini di fanteria di marina italiani e di un battaglione regolare, pure italiano, e per la debolezza estrema del governatore civile Palffy e del governatore militare Zìchy, i quali pur disponevano di 6000 uomini per metà italiani, ma per metà austriaci. E proclamata la Repubblica di San Marco, Venezia intese guidare le sorti di tutto il Veneto. Ma gli apprestamenti militari furono da principio, nella generale euforia, assai scarsi. C'erano in Venezia i soldati italiani dì 3 battaglioni di fanteria, già austriaci, i quali, unitamente ad altri elementi di altre armi, formavano un insieme di 3000 uomini ben addestrati, disciplinati e inquadrati, che avrebbero potuto e dovuto costituire il nerbo del nuovo esercito. Ma vennero, come sappiamo, mandati a casa, credendo sulle prime che potesse bastare la Guardia Civica. Poi si pensò di costituire 10 battaglioni di Guardia Civica Mobile, di 600 uomini l'uno, ma si giunse solo a formarne 6, ossia 3600 uomini, che uniti a elementi di gendarmeria, d'artiglieria e di cavalleria, potevano costituire un primo nucleo di 4 o 5000 uomini; ma difettavano i quadri, e poi si volle subito evitare d'immettere nella Civica operai e braccianti. L'arsenale era però ricco d'armi, sebbene sulle prime si fosse lasciato che troppi ne prendessero, in veste di uomini della Civica. Ma un errore più grave fu quello, costituito il governo provvisorio con a capo Daniele Manin, di non chiamare immediatamente a Venezia la flotta militare austriaca, i cui equipaggi erano in gran parte italiani e che si trovava a Pola. Bisognava farlo immediatamente, il 22 stesso, e invece non vi si pensò che il 23: al battello a vapore, incaricato di portare l'ordine, fu prescritto di sostare prima a Trieste per farvi sbarcare lo Zichy, cosicché le autorità di questa città ne furono avvertite per prime e corsero ai ripari: nessuna nave riusci più ad andare a Venezia, ma solo isolatamente un certo numero di disertori. La guerra si affacciò subito sul Friuli e il Nugent traversò il Veneto senza che Venezia, che col generale Alberto La Marmora aveva tentato per un momento dì assumere la direzione della difesa, ne fosse investita: i suoi antemurali di Treviso, di Padova e di Vicenza valsero dapprima a coprirla. Ma con la caduta di queste tre città, la guerra si affacciò al margine delle lagune alla metà di giugno. Convenivano però a sua difesa volontari veneti, truppe regolari e volontarie pontifice, 3 battaglioni piemontesi, 3 battaglioni napoletani, volontari napoletani e lombardi, e un generale come Guglielmo Pepe, accompagnato da alcuni valenti e ardenti ufficiali napoletani, quali i fratelli Mezzacapo, Girolamo Ulloa, Enrico Cosenz, Francesco Carrano. E la flotta sarda e quella napoletana dominavano dapprima l'Adriatico. Ai primi di luglio, c'erano nelle lagune circa 21 000 uomini: 13 000 fra veneziani, napoletani e lombardi formavano l'esercito veneziano vero e proprio, al quale si aggiungevano 6000 romani e 2000 piemontesi. L'esercito veneziano risultava costituito dei 6 battaglioni di Guardia Mobile, di 2 battaglioni di soldati ex austriaci, di un altro battaglione di gendarmi, anch'esso di ex granatieri dell'esercito austriaco, della legione italo-francese, formata a Parigi dal generale Antonini, già distintasi a Vicenza, di una compagnia svizzera, di elementi d'artiglieria e del genio. Inoltre, 4000 marinai e soldati di marina. In tutto, 17 000 uomini propri e 8000 alleati.
Il generale Welden, che doveva pur sempre presidiare col suo corpo d'armata le maggiori città e i punti strategici, disponeva sulle prime, per il blocco delle lagune dalla parte di terra, di circa 9000 uomini, disseminati a destra e a sinistra di Mestre fino a Brondolo da un lato e a Cavallino dall'altro: linea di blocco estesissima, che finiva coll'esser tenuta da un velo di truppe, salvo a Mestre e alle due estremità; e il blocco non poteva essere rigoroso. Ma il Pepe credeva notevolmente superiori le forze nemiche avanti a sé e si astenne quindi da una grande operazione per rompere il blocco, limitandosi a un'azione a sud di Brondolo, contro il piccolo forte di Cavanella, che dominava il Canale di Valle unente l'Adige con la laguna, allo scopo dunque di tenersi aperta una importante via di comunicazione per l'afflusso dei viveri. Il forte era presidiato da 250 austriaci; ma l'attacco avvenne quando le truppe si davano il cambio ed erano quindi in numero doppio. L'operazione, affidata al generale Ferrari, con 1600 uomini e 2 cannoni, il 7 luglio, fu condotta da 3 colonne, allo scopo di prendere alle spalle il forte e quindi attaccarlo dai due lati. Ma mancò il necessario sincronismo nelle mosse, e sebbene i soldati si battessero con tenacia e valore, l'azione non riuscì. Due giorni dopo, il Pepe faceva eseguire una sortita dal forte di Marghera verso Mestre. Ma era una semplice azione d'assaggio, condotta da 2 colonne di 250 uomini ciascuna; e si limitò a occupare alcune case verso Mestre, che gli austrìaci tenevano come posizione avanzata, facendovi un discreto bottino d'armi; la sera stessa i soldati tornavano a Marghera. Dal lato di mare non si procedeva con maggiore energia: non solo la flotta sarda, ma anche quella napoletana erano concentrate nell'alto Adriatico, rinforzate da 2 corvette e 2 brick veneziani; e il comandante sardo, Albini, aveva l'ordine non soltanto di proteggere Venezia, ma di cercare la flotta nemica e attaccarla. Tentò infatti di sorprenderla fra le foci del Piave e del Tagliamento, ma il mutare del vento favori' la flotta avversaria che potè riparare a Trieste. Il 23 maggio le flotte riunite erano davanti alla città; quella austriaca, di tanto inferiore, sì trovava all'entrata del porto sotto la protezione di tre grosse batterie. Malgrado la grande superiorità di forze né l'Albini, né il Cosa, ammiraglio napoletano, vollero iniziare un'azione, che avrebbe potuto condurre alla distruzione della flotta nemica: le navi si limitarono a una specie di blocco. L'Albini pare tuttavia che sperasse in una sortita del nemico a protezione del traffico mercantile. Ma alla fine del mese la flotta napoletana riceveva l'ordine di tornare nel regno, e veniva meno la schiacciante superiorità; meno che mai l'Albini, pur sempre superiore di forze, ritenne di dover impegnare battaglia e si limitò a ostacolare le navi mercantili dell'Austria. Ai primi di luglio, quando il Pepe si disponeva a far qualche cosa contro il blocco delle lagune, l'ammiraglio sardo riceveva l'ordine di limitarsi a osservare la flotta nemica, impedendole d'agire contro Venezia. D'altra parte, la Dieta di Francoforte aveva dichiarato che qualsiasi aggressione della flotta sarda contro Trieste sarebbe stata un'aggressione contro la Confederazione germanica, di cui Trieste faceva parte. Da metà giugno a fine luglio, sosta nelle operazioni e lotta politica per la fusione immediata al Piemonte, fusione alla fine votata dall'Assemblea con 127 voti contro 6. La difesa di Venezia doveva quindi rientrare direttamente nelle operazioni militari del regno di Sardegna ed averne quindi la protezione; 3 battaglioni sardi di nuova costituzione giungevano nelle lagune, e due piemontesi, il vecchio generale Colli e Luigi Cibrario, storico insigne, venivano come commissari regi, coadiuvati dal ministro della Giustizia Castelli, che aveva sostituito il Manin come presidente del governo provvisorio. Ma il 25 luglio c'è la battaglia di Custoza, il 6 agosto la capitolazione di Milano, il 9 l'armistizio Salasco che abbandona Venezia. E allora dimostrazioni nella città, i commissari devono dimettersi e Manin torna ad essere presidente. Il 13 agosto, partiti i commissari, l'Assemblea nomina un triumvirato formato dal colonnello Cavedalis, dal contrammiraglio Oraziani e da Manin presidente, per provvedere alla difesa, mentre il generale Pepe rimane a capo delle forze terrestri.
Il 10 agosto gli austriaci, padroni di Mestre, iniziano il fuoco contro il forte di Marghera. Ma avevano, in quel momento, poche forze e poca artiglieria: la sottomissione di Venezia sarebbe stata una cosa dura e difficile. Il Manin sperava molto nella mediazione che, in regime d'armistizio, Francia e Inghilterra avevano offerto al Piemonte; mediazione blanda e che doveva servire soprattutto all'Austria per guadagnare tempo. Nell'ottobre, pare che le ostilità si debbano riprendere. A Vienna si ha la terza rivoluzione, Praga dev'essere domata a forza, gli ungheresi si ribellano apertamente; in Lombardia Mazzini prepara dalla Svizzera un'invasione di bande nel Comasco, il cosiddetto moto di val d'Intelvi. Le forze austriache di fronte a Venezia, data la situazione generale, sono pur sempre scarse. Si è fatto appunto al Pepe di non aver agito con maggiore energia in questo periodo, cercando di rompere il blocco e spingersi eventualmente fino a Padova e a Treviso. Egli aveva 21 000 uomini, contro 10 000 austriaci tanto disseminati. Ma s'è anche detto che nell'estate, specialmente fra le lagune, le febbri dilagavano, tanto che un terzo o persino la metà dei suoi soldati ne erano colpiti. Comunque ora egli decideva una sortita contro Cavallino, contro la branca nord-orientale del blocco nemico, o se vogliamo l'estrema sinistra della loro linea di blocco. Quivi gli austriaci avevano 300 uomini con 2 cannoni. Il 22 ottobre, 400 uomini appoggiati da alcune barche cannoniere, avanzavano lungo la diga del canale, da Tre Porti a Cavallino; e sebbene si trattasse dì un passaggio obbligato, infilato dall'artiglieria, gli austriaci, visto il nemico avanzare arditamente alla baionetta, si ritiravano poco brillantemente in disordine, lasciando i cannoni, molte munizioni e viveri in mano agli assalitori. Pepe non volle però mantenere tale posizione, ritenendola troppo lontana; ma gli austriaci per molto tempo non osarono rioccuparla e l'arrivo dei viveri da quel lato rimase assai facilitato. Il 27 ottobre aveva luogo un'azione di maggiore importanza, da Marghera contro Mestre, punto principale della linea di blocco austriaca e nodo stradale importantissimo. Gli austriaci la presidiavano con 2500 uomini. L'accesso da Marghera non era punto facile, perché non v'era che un canale coi due argini e la ferrovia; il terreno tutto all'intorno, in parte paludoso, era poco sicuro. Pepe dispose l'attacco con 2000 uomini divisi in 3 colonne: una a destra, lungo il canale, un'altra al centro; una terza, molto più a sinistra, doveva sbarcare a Fusina e compiere una vasta azione aggirante, richiamando l'attenzione nemica da questa parte. L'azione di questa colonna, che doveva cominciare per prima, tardò alquanto, ma il Pepe fece avanzare ugualmente le altre 2 colonne, che procedettero protette da fitta nebbia. Il nemico però era vigile e accolse gli assalitori con forte fuoco. La colonna di destra fu sulle prime respinta; ma il Pepe la rincalzò con 100 gendarmi, mentre la colonna di centro avanzava. Lo slancio degli assalitori era mirabile: alla fine il nemico abbandonava le sue trincee, riparando nella piazza centrale della cittadina, mentre le case sul davanti erano occupate da tiratori. Anche qui dura lotta e per tre volte gli italiani furono respinti, ma alla fine riuscivano a penetrare, e il nemico volgeva in piena fuga lasciando 200 prigionieri. Quanto alla terza colonna sbarcata a Fusine, coll'appoggio di barche cannoniere essa mise in fuga il presidio nemico, impadronendosi di 2 cannoni e molte munizioni e avanzò verso la strada da Mestre a Padova; ma sopraggiunte le tenebre retrocesse a Fusine, mentre le altre colonne ritornavano a Marghera. Fu indubbiamente un'azione molto brillante, in cui le truppe mostrarono un singolare valore. Gli austriaci perdettero 300 uomini fra morti e feriti, 600 prigionieri, 6 cannoni e molto materiale; gli assalitori ebbero 250 uomini fra morti e feriti. Rimaneva ferito mortalmente e moriva una settimana dopo in Venezia, il poeta Alessandro Poerio di Napoli, nobilissima figura di patriota. Sempre il 27, da Brondolo, una ricognizione di 600 uomini sì spingeva fino a Cavanella, che trovava abbandonata. Gli austriaci, infatti, da tempo s'erano ritratti lungo l'Adige più ad occidente, fino a Cavarzere, cosicché la lìnea di blocco, nel tratto meridionale, si può dire che più non esistesse. Ma il Pepe non era in grado di presidiare adeguatamente tutta la linea, che formava un ampio semicerchio da Cavallino per Mestre, fino a Cavanella: in quel momento le sue truppe erano discese, con la partenza dei piemontesi e dei napoletani, a 18 000 uomini, di cui 7 od 8000 malati o comunque febbricitanti, e non adoperabili in vere azioni di guerra. Il successo aveva mostrato però l'ardore delle truppe, in gran parte volontarie, e il Pepe avrebbe voluto continuare in simili azioni, così da scuotere veramente o addirittura infrangere il blocco nemico; ma il governo si mostrò contrario, sembra dietro pressioni del governo francese, che sperava di poter includere Venezia nella mediazione. Dal canto loro, gli austriaci rioccupavano Mestre con maggiori forze. Ma arretrarono in più punti le loro lìnee e fino al marzo del '49 si astennero da serrare veramente il blocco e dall'intraprendere operazioni di rilievo. Cosicché le operazioni austriache contro Venezia si risolsero in un blocco di dieci mesi e in un assedio, cominciato veramente alla fine d'aprile, di quattro mesi.
Non c'è dubbio che in questo periodo triumvirato e governo veneziano cercarono di rinsanguare le esauste finanze con numerose imposte sui passaporti, la carta bollata, la birra, e soprattutto con prestiti, richiedendo offerte ai ricchi, e con emissione a corso forzoso di carta moneta: in tutta Italia, così come era possibile, si fecero offerte per venire al soccorso dell'eroica città. Si cercò anche di riordinare l'esercito, dando un'uniforme comune e organizzando la fanteria in legioni, ossia reggimenti di 3 battaglioni, anch'essi di forza uniforme; ma si riuscì solo in piccola parte. I battaglioni di Guardia Mobile, da 6 saliti a 7, furono poi rifusi in 4; così pure, i 2 battaglioni di volontari napoletani si ridussero a uno solo. Insomma, si preferì avere dei battaglioni d'una certa consistenza e d'una forza relativamente costante, anziché tanti battaglioni scheletrici. La fanteria risultò di 13000 uomini in 19 battaglioni, con in più alcune compagnie di sottufficiali e di veliti, ossia cacciatori, una compagnia svizzera, una ungherese, una dalmata. Si sperava poi molto nella defezione dei reparti ungheresi sulla linea di blocco, ma nell'insieme fu una grande delusione. Venezia fece pure pratiche per avere reparti mercenari dalla Svìzzera, ma la Dieta federale s'oppose; e fallì pure il tentativo di chiamare a Venezia i battaglioni svizzeri pontifici, che tanto s'erano distinti a Vicenza e che il governo rivoluzionario romano aveva licenziato alla fine di febbraio del '49. Le truppe del genio, tanto necessarie in questo tipo di guerra, sì riducevano a 250 uomini. In compenso, però, l'artiglieria era numerosa; se quella da campo si riduceva a due batterie con 12 pezzi, quella d'assedio saliva a 500 bocche da fuoco, che guarnivano le 70 opere, forti, batterie o trincee. Infine, c'erano pure 2 squadroni di cavalleria. L'insieme di tutte le truppe attive saliva a 16 000 uomini: se, come si è detto, piemontesi e napoletani erano partiti, se i romani erano stati richiamati alla fine dell'anno per difendere lo Stato sorto dai torbidi del novembre, nuove forze erano affluite: disertori italiani dell'esercito austriaco, giovani renitenti alla leva austriaca, volontari di diverse regioni d'Italia. Vi erano poi, fra Guardia Civica e Guardia Civica Mobile, 7 od 8000 uomini; e 4000 uomini della marina di cui 1600 marinai, 1100 artiglieri e 1300 fanti. I quadri di questo esercito erano pur sempre inuguali; però, sia attraverso la guerra del Veneto, sia attraverso l'esperienza della lotta ai margini della laguna, essi si venivano via via formando. Fu poi veramente preziosa, quando cominciò l'assedio vero e proprio, l'opera degli ufficiali napoletani già ricordati che circondavano il Pepe, e che in gran parte appartenevano alle armi dotte, artiglieria e genio. Ma soprattutto una manchevolezza grande e fatale danneggiò irreparabilmente Venezia: l'insufficienza e l'inerzia della sua flotta. Si è visto come fin dagli inizi si fosse persa l'occasione di richiamare a Venezia da Pola la flotta imperiale, nelle mani di equipaggi in gran parte italiani. Ma nell'arsenale vi erano, il 22 marzo '48, in armamento, in costruzione o in riparazione 15 navi con 238 cannoni, e precisamente una fregata, 4 corvette, 6 brick, 3 golette e un battello a vapore. La flotta austriaca non ebbe mai davanti a Venezia più di 16 navi con 276 cannoni, e precisamente 3 fregate, 2 corvette, 5 brick, 2 golette e 4 battelli a vapore. E quanto alle navi più piccole, barche cannoniere, pontoni, trabaccoli, e vìa di seguito, Venezia ne aveva in quantità molto superiore. Sarebbe stato dunque necessario adoperarsi con ogni lena per mettere in efficienza le 15 navi dell'arsenale; il lavoro avrebbe potuto esser compiuto per intero entro un anno, vale a dire prima che cominciasse l'assedio vero e proprio; e si sarebbero potute comprare, pur nelle ristrettezze finanziarie, alcune navi a vapore. Ma il pericolo di dover esser serrati da ogni parte, per terra e per mare, non fu visto che molto tardi nella sua gravita: delle 15 navi utilizzabili, solo 11 scesero in mare e alcune proprio negli ultimi tempi, e la fregata e le 3 golette non furono mai pronte; né si pensò ad acquistare navi all'estero. Si curò invece molto la flottiglia delle lagune, mettendo in attività 140 piccole navi, con oltre 400 cannoni: esse servivano alla difesa interna della laguna, ma non potevano bastare a rompere il blocco marittimo. Cosicché, sebbene la popolazione desse prova fino all'ultimo del maggiore patriottismo, mostrandosi piena d'abnegazione e di spirito di sacrificio, in realtà la grave falla, in tutto l'apparato difensivo, data dall'inefficienza della marina, risultò male d'una gravita eccezionale, e tale da rendere vani gli altri mirabili sforzi. Nel marzo '49, il Piemonte s'accinge a riprendere le ostilità; e la Repubblica romana decide senz'altro che una delle sue 2 divisioni si concentri a Bologna, per muovere verso il Po, collegarsi col Pepe e poi avanzare nel Veneto verso il Mincio e la Lombardia. Il Pepe dispone allora per un'azione al lato sud della laguna, così da potersi collegare con la divisione romana dì Luigi Mezzacapo, e concentra delle forze a Brondolo. Quindi il 21 marzo fa occupare da 350 uomini Conche, a undici chilometri a nord-ovest di Brondolo. Ma il giorno dopo gli austriaci attaccano energicamente, riprendono la posizione malgrado l'ostinata difesa italiana e vi lasciano un piccolo presidio. Il 24 il Pepe riattacca a sua volta e torna padrone della località. Gli austriaci sono ripiegati a Santa Margherita, ma un loro grosso nucleo è a Cavarzere, sull'Adige, per sbarrare la strada alla divisione romana, la quale in realtà non ha ancora finito di riordinarsi a Bologna. E purtroppo la nuova campagna, iniziata dai piemontesi il 20, si è chiusa la sera del 23 con la dolorosa rotta di Novara. Il 2 aprile l'Assemblea veneziana si riunisce in comitato segreto, decreta per acclamazione che Venezia resisterà a ogni costo e rinnova la suprema autorità a Daniele Manin. Sulla torre di San Marco è alzata la bandiera rossa, simbolo di resistenza a oltranza.
Gli austrìaci, però, non iniziavano le operazioni che un mese più tardi: essi in parte ancora vigilavano i piemontesi o erano occupati nei Ducati o in Toscana; e gli ungheresi tuttora si battevano in guerra regolare vittoriosamente. Fu fatto carico al Pepe di non aver profittato di quest'ultimo mese di blocco blando per compiere una operazione veramente energica, con quante più forze disponibili; egli pensò invece a riorganizzare sempre meglio l'esercito, curando i quadri, la disciplina, l'organizzazione, per la prova finale. Alla fine d'aprile, il II Corpo di riserva, notevolmente rafforzato, forte ormai di 30 000 uomini, e con un grande parco d'assedio, dava inizio alle nuove operazioni. Lo comandava il generale Haynau, resosi tristamente famoso poche settimane prima per la feroce repressione dell'insurrezione bresciana, così da essere chiamato «la iena di Brescia». Al tempo stesso, la flotta austriaca si presentava davanti a Venezia; ormai l'investimento era completo, cosi come poteva esserlo una linea di cento chilometri dalla parte di terra, e di sessanta da quella di mare. Ma i punti veramente importanti erano, come sappiamo, tre: Cavallino a nord, Brondolo a sud, Mestre a ovest. Si è discusso in quale dei tre sarebbe convenuto agli austriaci concentrare lo sforzo: essi si decisero per Mestre, mentre ad alcuni critici è parso che fosse preferibile o Cavallino - per Tre Porti, l'isola di Sant'Erasmo e le isole di Sant'Andrea, di Murano e di San Michele - o Brondolo - per Chioggia e lungo tutto il lido -: ma ciò avrebbe richiesto la valida cooperazione di una flotta più potente. Lo sforzo principale fu concentrato in Mestre contro il forte di Marghera e le sue opere accessorie, costituenti una vera testa di ponte da Venezia, pel ponte della ferrovia lungo 3600 metri, nella terraferma. Il forte era presidiato da 2500 uomini con 130 cannoni, molti grossi fucili e parecchi razzi. È parso che la guarnigione dovesse essere un po' più forte; ma in realtà, non vi era entro le mura che una sola caserma a prova di bomba, capace di 700 uomini. Un vantaggio per i difensori era dato dal fatto che il terreno paludoso, poco compatto, si prestava male alla costruzione di parallele e di camminamenti. Il colonnello napoletano Girolamo Ulloa, tecnico espertissimo, dirigeva la difesa. Nella notte sul 30 aprile, gli austriaci aprivano la prima grande parallela, tale da avviluppare, a 1000 metri dì distanza, il forte e le due opere accessorie ai lati: era in realtà una parallela discontinua e troppo distante. Comunque, il 4 maggio, 7 batterie con 60 bocche da fuoco erano pronte e a mezzogiorno aprivano il fuoco. I difensori rispondevano vigorosamente e solo la notte pose termine all'azione. Radetzky sperava che già questo primo cannoneggiamento avrebbe indotto i difensori alla resa: in realtà essi avevano avuto in tutto 4 morti, 18 feriti e 3 cannoni smontati; gli austriaci avevano avuto maggiori perdite e danni più gravi. E quando il Radetzky, presente all'azione, ebbe mandato un'intimazione di resa, Manin rispose che la città era decisa a difendersi, ma era pronta a intavolare negoziati sulla base del rispetto della sua nazionalità. Il Radetzky, inferocito, fece il 6 riprendere le operazioni; fu deciso di aprire una seconda parallela a 500 metri; e nella notte sul 7 il lavoro fu spinto avanti. Sarebbe stato forse il caso di procedere, da parte del Pepe, a una sortita il più possibile vigorosa, utilizzando se necessario anche la Guardia Mobile; ma egli si limitò, all'alba del 9, a far uscire due colonne di 200 uomini ciascuna, seguite da zappatori e artiglieri, per distruggere le batterie che si stavano armando. Dopo un combattimento serrato, gli italiani erano respinti e potevano solo aver costatato che le nuove batterie non erano per nulla iniziate. I difensori procedevano ora a inondazioni molto moleste per gli assedianti. Pure anche il nemico mostrava una grande tenacia.
I viveri scarseggiavano sempre più. Per rompere il blocco e farne entrare in città, il 20 era fatta da Tre Porti una vigorosa sortita contro Cavallino, e si potevano catturare 100 buoi. Il 22 da Brondolo 1000 uomini, in 3 colonne, si spingevano verso l'Adige e ritornavano con 300 buoi, e altri viveri. Ma contro Marghera gli austriaci il 24 aprivano di nuovo il fuoco, dopo aver collocate nella seconda parallela 11 nuove batterie: erano adesso in azione non più 60 pezzi, ma 151, e per quasi due terzi assai più vicini. E dirigeva ora le operazioni, al posto del generale Haynau, andato contro gli ungheresi, il generale Thurn. Il bombardamento, straordinariamente intenso, rallentò nella notte, ma per riprendere la mattina dopo con uguale intensità: gravi i danni a tutte e tre le opere; un terzo dei pezzi erano smontati ed erano esplosi dei magazzini di polvere e depositi dì munizioni. Pure, la guarnigione persisteva nella lotta intrepidamente, e tutta la popolazione, dai borghi della città e delle isole minori o sulle gondole, assisteva al terrificante spettacolo. Ma sia il Pepe sia il governo ritennero che la posizione non potesse essere tenuta più a lungo, che d'altra parte la vera difesa di Venezia fosse data dalle acque della laguna, e che non convenisse perciò sacrificare altre vite per conservare un'opera il cui valore era più offensivo, come testa di ponte e sbocco verso Mestre e quindi verso Treviso e Padova, che difensivo. Di conseguenza, ordinarono il ripiegamento, che si effettuò indisturbato nella notte del 27, concentrandosi ora la difesa a due terzi del ponte, sullo spiazzo e l'allargamento di questo. Il ponte era di 222 archi, largo 9 metri, lungo 3600 metri, e 5 allargamenti lo dividevano in 6 parti di 600 metri ciascuna. Sarebbe stato opportuno abbattere il primo terzo del ponte, dal lato di Mestre, e cosi avrebbe voluto il Pepe coi suoi ufficiali, ma il governo veneziano non volle rovinare una simile opera d'arte e si finì col rompere soltanto 19 archi, sei fra la testa di ponte e la prima piazza, dieci fra questa e la seconda, tre fra la seconda e la terza, ch'era la più grande. La prima interruzione era di 400 metri soltanto. La difesa si concentrava dunque sul terzo spiazzo, ov'era armata una batteria di 7 pezzi e 2 mortai, che si chiamò poi batteria di Sant'Antonio e divenne famosa. Più dietro, al limite della città, erano 3 altre batterie; e una quarta molto importante, quella dell'isola di San Secondo, 500 metri indietro a destra della batteria di Sant'Antonio. In questo modo gli austriaci, dopo un mese di sforzi, erano padroni del margine della laguna. Essi avevano occupato anche il piccolo forte di San Giuliano, che i veneziani avevano dovuto abbandonare, sebbene la sua occupazione fosse loro costata cara in quanto che una mina già preparata era esplosa, seppellendo una cinquantina di soldati sotto le macerie. Agli austriaci restava pur sempre un compito assai gravoso: dai margini occidentali della laguna sino a Venezia c'erano più di 3 chilometri di specchio d'acqua, intercettati da un gran numero di fortini e di batterie costruite sui diversi isolotti, e moltissime barche cannoniere, oltre la difesa vera e propria del ponte. Si entrava così in una seconda fase deirassedio. I lavori d'apprestamento delle batterie da parte degli austriaci, dato il terreno molle e spesso paludoso, richiedevano grande fatica e procedevano lentamente. Solo il 13 giugno, due settimane e mezzo dopo l'occupazione di Marghera, gli austriaci ponevano in azione le loro nuove batterie. Ma le distanze erano troppo grandi per la gittata dei pezzi: a 1300 metri dalla batteria di Sant'Antonio, a 1800 da quella di San Secondo e 3200 anche solo dal margine della città. Il fuoco si venne concentrando verso la grande batteria del ponte, l'obbiettivo meno distante: contro i 7 cannoni e i 2 mortai della batteria erano in azione 14 cannoni, 8 mortai e 3 obici. Lotta violenta e tenace: di giorno le difese della batteria erano sconvolte, di notte i difensori le rimettevano in efficienza, soprattutto con grande quantità di sacchetti di terra. E via via i veneziani aumentavano il numero dei pezzi delle batterie: quella di San Secondo da 5 pezzi fu portata a 13, e sul piazzale retrostante a quello di Sant'Antonio fu posta una nuova batteria di 6 pezzi. Il fuoco veneziano contro l'isolotto di San Giuliano era così intenso ed efficace che i soldati austriaci chiamavano il ponte che lo collegava alla terra ferma «ponte della morte». Il 13 giugno era dunque cominciato il nuovo grande bombardamento; siccome era il giorno di sant'Antonio, la grande batteria del ponte fu battezzata dal popolo con questo nome. E il popolo era pur sempre molto fiducioso e animato da alto spirito patriottico. In realtà, fino ai primi di luglio il cannoneggiamento austriaco, per quanto intenso e rumoroso, non diede per nulla grandi risultati; tanto che dopo aver deciso, come si è visto, di concentrare lo sforzo nel punto centrale della laguna, il comando austriaco sembrava riprendere l'idea di procedere anche da sud, dal lato di Brondolo. Sebbene anche di li, pur dopo aver preso Brondolo e Chioggia, l'avanzare lungo il cordone litoranee, sbarrato da successivi fortini e battuto di fianco dalle barche cannoniere, dovesse essere impresa oltremodo difficile, pure con grande fatica gli austriaci procedevano all'investimento di Brondolo, difesa da 4 o 5000 uomini, e il 4 giugno sferravano con 7 od 8000 uomini l'attacco generale. Anche la flotta doveva concorrere contro il fianco sinistro dei difensori, operando pure uno sbarco. Ma le navi si tennero troppo a distanza e i diversi attacchi delle fanterie contro i vari punti della linea di difesa fallirono tutti. Occorrevano dunque, anche qui, lavori sistematici e gli austriaci si posero all'opera; ma anche qui, oltre l'intenso fuoco dei difensori, trovarono le grandi difficoltà del suolo poco compatto e spesso paludoso, oltre che intersecato da canali. Venezia pareva veramente imprendibile, sebbene cominciasse a risentire le conseguenze di un blocco sempre più rigido e dell'inazione della flotta, che sola avrebbe potuto romperlo dalla parte del mare. Comunque, parve che alla fine di maggio l'Austria fosse disposta a trattare: il giugno passò relativamente tranquillo, mentre si svolgevano vane trattative, che l'Austria, visto che la pace col Piemonte tardava a concludersi, voleva guadagnar tempo e fece proposte generiche e insufficienti. E alla fine si aveva un ultimatum: l'Austria rinunziava all'indennità di guerra, ma la carta moneta emessa nel '48-49 sarebbe stata riconosciuta solo per un terzo del suo valore nominale e la città avrebbe dovuto incaricarsi d'ammortizzarla! L'Assemblea quasi all'unanimità respingeva tale ultimatum e più che mai si mostrava fermamente decisa alla resistenza la massa della popolazione. E sì che Venezia, caduta ai primi di luglio la Repubblica romana, rimaneva sola in Italia anche l'Ungheria, ora che la Russia appoggiava l'Austria, ben poca speranza poteva avere di sostenersi. In Venezia si senti' dunque il bisogno di porre la difesa nelle mani d'un triumvirato energico; l'Assemblea creava una commissione militare di tre membri: Girolamo Ulloa, l'ufficiale napoletano difensore di Marghera, promosso ora generale in premio del suo valore, il tenente colonnello Giuseppe Sirtori, lombardo, ex prete, e rimasto una figura ascetica di cavaliere dell'ideale, combattente delle Cinque giornate di Milano, poi a Venezia alla testa d'un battaglione di volontari lombardi mandato sostegno dal governo provvisorio lombardo, distintosi anch'egli a Marghera (sarà poi ufficiale garibaldino di grido, nonché tenente generale dell'esercite italiano), e il Baldisserotto, distinto ufficiale di marina. In questo modo erano un po' esautorati il vecchio Guglielmo Pepe e Daniele Manin e anche il colonnello e ingegnere Cavedalis. Ma Manin restava pur sempre dittatore della Repubblica, e il Pepe fu messo a presiedere, sia pure con ufficio decorativo, la commissione militare e restò capo delle forze di terra. Così che il solo sacrificato fu il Cavedalis, che tuttavia mostrò nella circostanza dignità di carattere, mosso unicamente dal desiderio del pubblico bene. La commissione si mise al lavoro con grande energia: eliminò molti ufficiali improvvisati, altri ne sostituì nei punti di maggiore importanza, si adoperò perché la disciplina fosse sempre più rigida, aprì nuovi arruolamenti nell'artiglieria, arma essenziale della difesa; curò i rafforzamenti delle batterie del ponte e di San Secondo, curò la ricerca del salnitro e la fabbricazione della polvere. Ma grave era il problema dei viveri: si creò al riguardo un'apposita commissione, che regolasse le vendite e i prezzi, impedisse gli accaparramenti e le speculazioni vergognose. Il 28 giugno il governo decretava una nuova imposta fondiaria di sei milioni a carico dei proprietari di immobili.
Ai primi di luglio ripresa intensa dell'attività guerresca. Nella notte sul 7 luglio, un reparto scelto di 60 austriaci, tutti volontari, guidati da un capitano di Stato Maggiore, avanzava cautamente a nuoto o in barca lungo i tratti intatti del ponte fino alla batteria di Sant'Antonio, per tentare un colpo di mano. Un brulotto, lanciato verso la batteria, scoppiava avvolgendola di fumo e facendo ritirare le barche poste attorno al ponte; i 60 austriaci s'arrampicavano fino alla batteria, i cui difensori, reputandosi al sicuro da un attacco di fanteria, erano in gran parte senza piccole armi, e s'impadronivano della posizione, inchiodavano i cannoni e si mettevano a disfare cannoniere e parapetti; ma accorrevano prontamente uomini dell'altra batteria e della riserva all'estremità del ponte, e gli austriaci erano respinti e gettati in acqua, ove perivano quasi tutti. Dopo d'allora, gli austriaci non rinnovarono alcun colpo di mano contro la batteria. Tentavano tuttavia un mezzo nuovo per bombardare la città: costruivano dei palloni aerostatici, ai quali erano attaccate delle bombe: il vento li trasportava e le bombe dovevano cadere sulla città. Il 12 luglio una ventina dì questi palloni furono lanciati da una fregata all'ancora al di là del lido, ma non una bomba cadde sulla città; la maggior parte scoppiarono in aria, o caddero in mare o nelle lagune, e alcune finirono dalla parte degli assedianti. Ma gli austriaci stavano già meditando un nuovo mezzo per aver ragione dell'indomabile città. Dal 16 luglio il loro fuoco cessava completamente e cominciava un lavoro intenso per trasformare le loro batterie così da permettere ai cannoni di tirare con un angolo di 42-45 gradi. I cannoni e gli obici furono dunque smontati dai loro affusti e aggiustati su slitte di legname con la base a culatta, affondate nel terreno e addossate alle scarpate, rivestite anch'esse di travi e di assi. Solo poche artiglierie erano rimaste nella forma primitiva. Sparando cosi alto in aria, si veniva ad ottenere una maggiore gittata e si potevano lanciare proiettili su due terzi della città: solo le zone di piazza San Marco, dell'Arsenale, dei giardini pubblici rimanevano esenti dal bombardamento. Il tiro a palla piena arrivava a 5200 metri, quello a granata a 4200, e le bombe potevano esser lanciate fino a 3800 metri; in questo modo gli austriaci ritenevano di poter finalmente domare la città, tanto che rinunziavano alle operazioni dal lato di Brondolo, i cui apprestamenti erano pur costati tante fatiche e l'impiego di tanti mezzi, anxi ritraevano notevolmente la linea di blocco da questo lato, tenendovi ora di presidio una brigata soltanto. I veneziani non avevano avuto notizia dei nuovi lavori e avevano utilizzato il nuovo periodo di tregua da un lato per economizzare munizioni, dall'altro per intensificare i soliti lavori di rafforzamento delle batterie e delle difese. La notte sul 28 luglio, dopo dodici giorni di tregua, si scatenava improvviso il nuovo grande bombardamento: per circa due chilometri di profondità la città si trovò sotto una pioggia di proiettili nemici. Ma se ciò destò sulle prime meraviglia e qualche confusione, ben presto ritornò una relativa calma. I quartieri colpiti furono in gran parte abbandonati e senza pianti né lamentele né proteste: la gente, che riparava nelle zone non colpite, fu accolta fraternamente sia nelle case particolari, sia negli edifici pubblici o sotto i portici di piazza San Marco. Poco lo scompiglio tra la popolazione e ancor meno quello dei difensori delle batterie. Il bombardamento improvviso era accompagnato dalla riunione su barche di un notevole numero di soldati per svolgere colpì di mano contro isolotti e batterie e contro il ponte: ma nulla in pratica fu tentato. Quanto alla popolazione essa si abituò ben presto alla nuova offesa. E in realtà questa aveva i suoi limiti. Le palle di ferro piene, giunte al vertice della loro parabola aerea, precipitavano per semplice forza di gravita, così che la loro forza di penetrazione non era grande; avrebbero potuto produrre danni maggiori se arroventate, ma gli austriaci mancavano di forni a riverbero per poterle arroventare adeguatamente; quanto alle bombe, esse giungevano colla minore gittata di 3800 metri al più e quindi arrivavano in pratica solo al bordo della città. Nell'insieme, il bombardamento durato intenso per tre giorni, il 28, 29 e 30 luglio, non aveva dato i risultati sperati. D'altro canto, erano falliti i tentativi di collocare sul ponte batterie di mortai maggiormente ravvicinate alla città. In realtà, non fu il bombardamento a condurre Venezia alla resa. Anzi, il 1° agosto i veneziani, vista la ritirata austriaca dal lato di Brondolo, compievano con 1200 uomini una ben riuscita sortita da questo lato, respingevano vigorosamente un distaccamento nemico da Calcinata, e potevano fare incetta di 200 buoi, nonché d'una notevole quantità di grani e di viveri. Viceversa falliva una sortita a nord, dal lato di Treporti. Il bombardamento non aveva dunque avuto l'effetto sperato, sebbene dal 29 luglio al 22 agosto gli austriaci scagliassero sulla eroica città ben 23 000 proiettili: fra la popolazione civile si ebbero 7 morti e una trentina di feriti e anche gli incendi, per quanto molto frequenti, furono quasi sempre di limitata estensione e facilmente estinguibili. Ma due altri mali incombevano e l'uno anzi conseguenza dell'altro: la crescente mancanza o cattiva qualità dei viveri e il colera, che si sviluppava pericolosamente sotto l'influenza dei grandi caldi, del cattivo nutrimento e della concentrazione della popolazione. Pure, la mancanza di viveri pareva pur sempre il pericolo maggiore. La sortita di Brondolo aveva per un momento fatto sperare di risolvere il problema; ma in realtà il blocco continuava sempre più stretto; gran parte delle truppe d'occupazione nella Toscana (II Corpo d'armata) venivano ora richiamate, per intensificare appunto il blocco. Occorreva che la piccola flotta veneziana finalmente si gettasse arditamente allo sbaraglio, a costo d'andare incontro al supremo sacrificio; ma l'ammiraglio Bua, per quanto non privo di cultura e di capacità, non era uomo da tanto. Un uomo avrebbe potuto veramente sostituirlo ed era Giuseppe Garibaldi, resosi illustre nell'America meridionale per ripetute imprese del genere alla difesa del Rio Grande do Sul e dell'assediata Montevideo, e che, uscito da Roma dopo l'epica difesa e dopo aver invano tentato di sollevare l'Umbria e la Toscana, era giunto attraverso l'Appennino a Cesenatico. Ma all'alba del 3 agosto la flottiglia di barche da pesca, su cui s'era imbarcato con circa 200 uomini, incappava nella squadra austriaca presso le foci meridionali del Po, ed egli a fatica riusciva a prender terra con pochi amici, per iniziare una nuova odissea fra le paludi di Comacchio e la pineta di Ravenna e salvarsi alla fine miracolosamente riparando in Toscana e imbarcandosi sulla costa della Maremma. Pure alcuni compagni riuscivano alla spicciolata a giungere a Venezia, promettendo il pronto arrivo del capo ormai famoso: persino Daniele Manin, che nove mesi prima aveva scritto al Tommaseo che Garibaldi non sarebbe stato affatto utile a Venezia, sia per motivi politici sìa per non essere adatto a dirigere la difesa dei forti, il 7 agosto sperava che stesse per giungere e con tale fiducia nutriva le speranze del popolo. Il giorno prima l'Assemblea gli aveva concesso tutti i poteri, conservando solo per sé quello di ratifica. Ora soltanto cominciavano a farsi sentire coloro che ritenevano essere la causa ormai perduta e necessario cedere alla ineluttabilità della sorte. A costoro si opponeva il partito della resistenza; già si era decretata una leva di 600 marinai e la mobilitazione di 1000 guardie civiche, ed esso reclamava la leva in massa e una generale disperata sortita. Ma il Pepe riteneva che non avesse nessuna probabilità di successo. Non c'era che sperare nella rottura del blocco da parte della flotta: P8 agosto questa dietro gli ordini pe-rentori di Manin e della commissione militare, prendeva il mare: erano 4 corvette, 5 brick (brigantini), una goletta, e solo un battello a vapore e 3 piccoli rimorchiatori a vapore. La flotta nemica contrapponeva 3 fregate (i veneziani non ne avevano nemmeno una), 2 corvette, 5 brick e 4 battelli a vapore. Ma la flotta riappariva il giorno dopo senza nulla aver concluso. Di fronte all'indignazione generale, la flotta doveva riprendere il mare, ma di nuovo per retrocedere senza nulla aver concluso. In verità, i suoi equipaggi non erano all'altezza dei difensori di terra; pur in una situazione tanto difficile, marinai ardimentosi e decisi avrebbero potuto far qualche cosa. Ormai i giorni di Venezia erano contati, non c'erano più farine, mentre il colera imperversava più che mai, mietendo vittime ogni giorno. Ormai per la resistenza erano alcuni elementi esaltati, un certo numero dì ufficiali e di funzionati e in generale quelli che comprendevano di non poter aver grazia dal vincitore. Manin faceva un'ultima emissione di sei milioni di carta moneta, poi il 17 agosto mandava a Mestre una commissione incaricata di trattare e il 22 era sottoscritta la capitolazione.
Venezia aveva resistito fino all'estremo. Se durante il blocco, in un primo tempo, aveva avuto il sostegno di soldati degli eserciti pontificio e napoletano e di lombardi, dal gennaio e più che mai dall'inizio dell'assedio vero e proprio, nell'aprile, all'infuori di alcuni ufficiali superiori napoletani d'artiglieria e del genio, tutti valentissimi, e di pochi lombardi, non aveva avuto che elementi veneti e i suoi stessi cittadini: fino all'ultimo era stata una nobile gara d'eroismo e di sacrificio. Venezia cadeva veramente per il colera e per mancanza di viveri. La guerra popolare aveva scritto fra le sue lagune una pagina di gloria imperitura. Ma, al solito, al blocco e all'assedio erano mancati i sostegni dell'insurrezione esterna; i migliori elementi veneti avevano, come a Roma gli abitanti dello Stato pontificio, contribuito a sostenere la difesa interna; era mancata insomma la grande insurrezione delle campagne a sostegno della difesa cittadina. E questi erano i limiti delle possibilità insurrezionali italiane.
Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962